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Il destino universale di Makaya McCraven

Scritto da il 24 Gennaio 2019

La recensione di Universal Beings, il nuovo doppio album del musicista francese pubblicato dalla label International anthem

Mettiamo da parte ogni pulsione di nominare Kamasi, Shabaka o la Black Focus e mettiamo sul piatto un disco di Makaya McCraven. Lo so, il rifuggire in sperimentali paragoni tra Tizio, Caio e Sempronio è uno sforzo difficile da controllare e per un appassionato di musica, la ricerca del suono, delle nuove produzioni, stimola la “papilla paragonativa” ed accelera il fluido del “Dove cavolo ho già sentito questo suono?”.

Lavoro inutile, perdita di tempo.

Lasciarsi cullare dalle suggestioni e ascoltare: ecco il lavoro che fa per noi!
Makaya ha una verve creativa sintetica, un suono oltre misura e subito, al primo solco, appaiono alla mente immagini cinetiche che viaggiano da Akira Kurosawa,  quei paesaggi black and white nebbiosi e animati, e Fellini, con le sue maschere romagnole.

Per l’ascolto è necessaria una poltrona che consente di verificare lo stato dello spazio tempo dopo ogni giro del prode sl 1200 circuitatore di groove. Già, perché – signori miei – questa è una musica piena di luoghi e di anime ad differenti temperature ed altrettante latitudini legate tra loro in un Cloud Altlas della musica.

No, non stiamo ascoltando jazz. Non nell’accezione classica. E non stiamo ascoltando funk o rock e cosa volete voi. Stiamo ascoltando scorrere lo spazio tempo nella versione del batterista franco ungherese.

Le onde gravitazionali erano già state sconvolte da McCraven con il mixtape Where We Come From (Chicago x London Mixtape), in quella sintesi di fuoco di due giorni di session con il Gotha del jazz sound londinese contemporaneo, e non attendevano l’uscita di quella versione dell’universo che ne sarebbe venuta fuori. A far da sfondo alle 22 tracce di Universal Beings c’è il perfezionamento delle geniali intuizioni acustiche e ritmiche di In The Moment ( 2015) attraverso l’esperienza saggistica e nuove affinità. 4 facciate, che nulla hanno a che fare con il prode Kamasi e il suo affinamento con il karma. Nulla hanno a che vedere con la ritmica dei figlioli di Kemet ma mostrano un modo d’intendere la musica molto simile. Ecco che le quattro session, ciascuna in un mondo suo, con nuovi musicisti e nuovi suoni, che diventano una faticosa esplorazione di metriche e timbri tra la grande Mela, Chicago, Londra e Los Angeles.

Forse non dovrei dirlo per non suscitare offese in alcuno ma se avete pensato, in altri momenti, con altri suoni, con altri protagonisti, di esservi trovati al cospetto della creatività, vuol dire che le vostre collezioni di dischi hanno bisogno di essere completate e – forse – riviste.
Universal Beings è una vera enciclopedia del jazz contemporaneo come neanche il meraviglioso The Epic era riuscito ad essere.

Ops, sono caduto nel gorgo del paragone microsolchico. Avevo paura di cadere e di girare anch’io sino all’incontro increscioso con la mia shure ed ho tentato in mille modi di sorreggermi sullo shell avido di tracce, ho fallito.

Chiedo scusa a Kamasi, gli ridò la foto che abbiamo scattato insieme mentre autografava il suo The Epic ( il disco no, quello me lo tengo), ma ho un nuovo amore. La colpa del tradimento è quella New York Session ( Side, per gli amici) in cui l’arpa di Brandee Younger divelle i blocchi jazz hop in Holy Lands e si trasforma – Commander del sound – in ottone dallo swingare vibrato in Young Genius.
Lo ammetto, non sono riuscito ad averne abbastanza e dopo il trip hop sinfonico di Tall Tales ho avuto una visione con Mantra e le mie mani hanno riportato indietro la puntina.

Chiedo scusa alle stirpi, ai miei avi: mi avete fatto umano e me ne accorgo con la Chicago Side sulle note di quei pezzi in cui riscontro il free jazz di Ornette Coleman e la concretezza di Rollins scontrarsi tra loro, amarsi, ed avventurarsi in un abbraccio che no può non trovare gli applausi del pubblico.

Il metallo pesante, però, continua a scendere in campo, ad essere buttato giù con esplosioni che non vi dico non vi racconto nemmeno e non vi lascio neanche immaginare, nel London Side: Nubya Garcia, Ashley Henry sfoggiano un volteggiare da paura che sfocia in un afro suite luminosamente sanguigno di The Newbies Lif Off, ma quel che colpisce è l’armoniosa psichedelia timbrica del drumming di Makaya. Forse è questo il momento topico del disco.

Sono estasiato. Rimugino, rimangio i solchi e  la puntina va avanti e indietro più volte, non riesco a finire l’ascolto del disco. Fatelo voi. Fatelo!!! E, se un giorno, tra un vinello e l’altro, pieni di saccenza, disturbati dall’ego vi menzioneranno Kamal Williams, gli influssi di Coltrane, il modale, Flying Lotus, lo spiritual jazz, voi cincischiate, sorseggiate il vostro vinello e, ondeggiando la testa con sorrisetto sardonico, osservate le vostre mani e dite: Makaya. Makaya McCraven.
Avrete vinto la vostra personale battaglia.


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